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racconti brividosi... 
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Messaggio Re: racconti brividosi...
5 CORPI PER LA BESTIA
(Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2006 - edizione 5)



“Szock-Szock” quella mano pelosa menava fendenti. Era lì, potevo vederla infierire, era il male. “Lasciali stare. Prendi me, pezzo di me*da!”
Stava sterminando la mia famiglia.
La lama era seghettata, aveva preso il mio coltello da caccia con cui sgozzavo le lepri dopo averle ferite.
Quando infierì su mia figlia, la mezzana, vidi il sangue vivo schizzarmi sulle palpebre.
“Papà... papà!!!” esalò nell’ultimo atroce anelito di vita.
Addio amore mio!!!
“Slegami e battiti, se sei un uomo.”
Grugnò come un cinghiale!
Perché si accaniva su di loro? Vedevo i suoi schifosi peli cadere sulle membra morenti dei miei cari.
Dopo averli feriti con i denti sbranava e spolpava le mie creature indifese. Mi aveva bloccato, forse iniettato qualcosa. Paralizzato. Non potevo reagire.
Johnny, l’ultimo dei miei figli, piangeva disperato mentre la gelida lama si riscaldava con le sue lacrime.
Mia moglie rantolava, soffocata nel sangue: “Bestia! Prendi me, prendi me!!!”
“Papà... aiuto!!!” udii.
Riuscii a muovere lo sguardo, vidi soltanto gli occhi del bimbo entrare nel cervello spinti dalla lama. La mia alcova era impregnata di liquidi vitali, l’aria profumava di anime innocenti e puzzava di morte. Lasciò cadere il coltello; con le nude mani soffocò mia moglie moribonda. Ora era su di me, riuscii a voltarmi, impattai un riflettente. Vidi gli occhi di un uomo nel corpo di una bestia e 5 corpi vuoti.
Udii delle voci “Dottore... Dottore, cosa sono state quelle urla?”
Riguardai nello specchio. Lui non era più lì. Dove era fuggita quella bestia? Riuscii finalmente a muovermi, mi gettai disperato tra i corpi, dannai il creato! La serva entrò: la sentii urlare.
“Chi è stato Jenny, chi è entrato?” urlai sporcandole la camicetta.
“Un suo amico, sembrava un mostro ma aveva le sue chiavi. Diceva di volersi sdebitare!”
“Che amico???” chiesi.
“Diceva di chiamarsi... Hide!”

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domenica 28 ottobre 2012, ore 12:45
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Messaggio Re: racconti brividosi...
ANIME DANNATE



Emerse dalle tenebre.
Un cavaliere avvolto da un mantello nero su di un cavallo color del piombo.
La strada flagellata dalla pioggia. Accanto alla via, corvi neri gracchiano beccando e strappando carne da corpi inermi, distesi sul selciato.
Mietitori di morte.
Il cavaliere li oltrepassò senza fermarsi. La spada pendeva dal fianco sinistro e toccava l'armatura del cavallo. La guerra era passata anche da lì.
L'unico obiettivo delle creature era quello di macellarsi gli uni con gli altri.
E macellare gli umani, fu il pensiero del cavaliere.
Il mantello inzuppato dall'acqua, rendeva lenti i movimenti. Un urlo di donna si alzò nel cielo nero. L'uomo guardò avanti a sé e vide una giovane ragazza in ginocchio nel fango. Piangeva. Le braccia aggrappate ai brandelli di quello che prima doveva essere il suo uomo.
Morte era venuta e morte era passata.
Il cavaliere passò indifferente. La donna si alzò di scatto e si aggrappò agli stivali neri.
L'uomo a cavallo appoggiò una mano sulla testa della donna e sussurrò delle parole. La giovane si spostò e giunse le mani nell'atto di pregare.
Morte e desolazione, il pensiero fisso del cavaliere.
Le mura di una piccola città si stagliarono all'orizzonte. La pioggia frustava l'uomo e l'animale senza tregua. I due entrarono in città. Una piccola chiesa, semi-distrutta, giaceva al centro dell'agglomerato cittadino. Il cavaliere la raggiunse e si fermò a pochi passi dal portone.
Il deserto intorno a me.
Il prete scese da cavallo e si aprì lentamente il mantello. Una croce d'argento, legata al collo da una grossa catena, riflesse un po' di luce.
Iustitiae Deus, pregò in latino l'ecclesiastico vestito di nero.
Un rumore fece alzare la testa dell'uomo. Un'ombra all'interno della chiesa. Il cavaliere coprì i pochi metri che lo dividevano dall'ingresso. Entrò al riparo dalla pioggia. Il buio era opprimente, l'aria pesante. Preghiere in latino ruppero il silenzio. Due occhi fissarono la figura del cavaliere; un essere dall'aspetto umano emerse dall'ombra. Il prete lo guardò con odio e notò il marchio delle creature sul collo. Estrasse la spada dal fodero. L'essere che gli stava di fronte, snudò i lunghi denti aguzzi e scattò in avanti pronto a colpire alla gola. Il cavaliere fece un passo in avanti alzando la spada dal basso verso l'alto. Il vampiro si fermò di colpo; uno squarcio dal pube all'attaccatura dei capelli eruttò sangue. La creatura incespicò e cadde al suolo. L'uomo vestito di nero toccò la croce d'argento ed uscì dalla chiesa.
Morbo appestante che uccide l'uomo.
Pioggia raggelante, vento ululante nella notte. Il prete si coprì con il mantello e risalì sul cavallo. La notte era ancora lunga e le creature da "salvare" tante. La strada che portava al cimitero era distrutta, pozzanghere e rovi invadevano l'acciottolato. Il cancello che separava il "luogo dei morti" dal "luogo dei vivi", era stato staccato e gettato a terra.
L'inferno è sulla terra.
Alcune lapidi erano state capovolte; alcune erano addirittura scomparse. I cimiteri erano i luoghi preferiti dalle creature. Il buio era agghiacciante. Due ombre sulla destra. Il prete toccò la croce; pregò in latino ed estrasse la spada. I vampiri si mossero fulminei. La spada scintillò nel buio. Le tre figure si ritrovarono a danzare nella notte; la lama disegnava strane figure nell'aria. Qua e là il ruggire delle creature. I vampiri si avventarono sul prete che indietreggiò. La terra improvvisamente si aprì. Il cavaliere fu risucchiato dalle tenebre. Cadde pesantemente. L'aria sapeva di morte, decomposizione, umidità. Il respiro si fece pesante.
In nomine Patrii... Filii...
Il prete si rialzò a fatica. Il fiato appestante di una creatura.
Un grido.
Le mani del vampiro sulla gola dell'uomo; schiacciano e premono, l'aria esce dai polmoni. Le mani del prete cercano invano di allontanare la creatura. Troppo potente. La gola stretta in una morsa d'acciaio. Ad un tratto, altri due vampiri calano nel buco. Sei occhi puntati sulla gola del prete. Con un ultimo sforzo, il cavaliere si apre il mantello. La croce d'argento splende nel buio della cripta. Il vampiro lascia la presa e urla di sdegno. L'aria rientra nei polmoni ormai vuoti. La mano ritrova la spada. Sangue sprizza sul muro. Una creatura cade nella terra. I due vampiri rimasti si guardano atterriti. La spada cala facendo disegni con il sangue. Ansimante, il prete ripone l'arma nel fodero. Gli occhi ormai abituati alla penombra, intravedono una luce fioca provenire dal fondo di un corridoio. Con le gambe pesanti e il fiato corto, il cavaliere s'incammina verso la luce.
Tanfo e morte aleggiano nell'aria.
La falce della Signora in nero è passata anche da qui, pensa il prete trascinandosi stancamente.
Il corridoio termina bruscamente in una cripta enorme. Ragnatele decorano i muri. L'uomo si avvicina ad una tomba di marmo su cui campeggia la scritta "LE ANIME DANNATE REGNERANNO INDISTURBATE".
Un fruscio alle spalle. Ombre semi-umane, danzano sui muri.
Il prete sfila lentamente, con gesti voluti, il grande mantello nero che cade a terra. La croce tintinna sul petto.
Il Master Vladimir sussurra parole demoniache mentre il prete prega in latino.
I capelli neri di Vladimir toccano le spalle possenti; gli occhi castani guardano con odio e sicurezza il prete.
"Ti stavo aspettando" proferisce con voce profonda Vladimir.
Il tempo sembra fermarsi. Il corpo muscoloso del Master è completamente immobile; i due si studiano per un tempo immensamente lungo. Le gambe del vampiro scattano. Il cavaliere estrae la spada che scintilla nella debole luce prodotta dalle lanterne.
Il vampiro estrae uno stiletto dalla giubba di cuoio. Le due lame entrano in contatto; scintille balzano in tutte le direzioni. I respiri diventano affannosi.
Il prete sposta il peso sulla gamba destra e colpisce dal basso verso l'alto. Il Master salta come un gatto verso sinistra e lo stiletto penetra la carne dell'uomo appena sotto le costole. Il cavaliere riprende a pregare in latino.
Le anime dannate regneranno indisturbate...
... non questa sera.
Una torcia si spegne. Altre ombre mefistofeliche si aggiungono alla danza.
Il sangue cola sulla camicia nera del cavaliere. La mano guantata stringe più forte l'elsa della spada. Con un ruggito, Vladimir salta addosso al prete. Le lame entrano di nuovo in contatto. La spinta del Master è così violenta da far cadere l'uomo; la spada sfugge di mano scivolando sul marmo sporco di sangue e muffa. La litania in latino cessa; le varie cicatrici del cavaliere bruciano come fuoco su tutto il corpo.
Dammi forza... dammi sicurezza...
Il vampiro si avvicina con passi lenti; un sorriso si dipinge sulla faccia scheletrica. Lo stiletto penetra nella spalla sinistra del prete, perforando le ossa. La bocca si apre mostrando i denti aguzzi. Il Master si avventa alla gola dell'uomo; rivoli rossi scivolano lungo il collo.
Tutto giunge al termine...
Il vampiro urla di dolore e lascia la presa; la mano destra va a toccare l'ustione appena dietro la nuca. Gli occhi si dilatano per lo sgomento; il cavaliere si rialza a fatica da terra. Sporco di sangue, sfinito per le battaglie e la perdita del fluido vitale, guarda Vladimir negli occhi e sussurra: "Salutami le tue anime dannate e digli che presto porterò via anche loro".
L'uomo con un ultimo sforzo si butta sul vampiro calando la croce sulla faccia. Urla oscene percorrono i corridoi della cripta. Sanguinante, il Master barcolla all'indietro, toccandosi la faccia bruciata. Una lama penetra nel costato fino al cuore: un sussulto, un fiotto di sangue che esce dalla bocca; il corpo che si affloscia sul marmo umido. Il cavaliere butta per terra lo stiletto usato da Vladimir, ormai privo di vita.
Chissà se ne ha mai avuta... di vita...
Barcollando il prete si porta verso l'esterno della cripta; ombre semi-umane che danzano sui muri seguendo quella figura ormai priva di forze.

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martedì 30 ottobre 2012, ore 19:28
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Messaggio Re: racconti brividosi...
Grande ireee ! :D

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martedì 30 ottobre 2012, ore 22:05
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Messaggio Re: racconti brividosi...
E.A.POE

Le vicende relative al caso del signor Valdemar

NATURALMENTE non pretendero' di ritenere un fatto straordinario che il
sorprendente caso del signor Valdemar abbia provocato tante discussioni:
sarebbe un miracolo se cio' non fosse statodate soprattutto le
circostanze. In seguito al desiderio di tutte le parti interessate di
tenere nascosta la vicenda al pubblicoper il momento almenoo fino a che
non avessimo avuto occasioni per una ricerca piu' approfonditain seguito
appunto ai nostri sforzi per ottenere questosi e' sparsa tra la gente una
versione del fatto arbitraria ed esageratala quale e' divenuta fonte di
molte ipotesi sgradevoli ed errate e logicamente di grande incredulita'.
E' ora necessario che io dia i FATTI cosi' come li conosco. Eccoli in
succinto.
La mia attenzionein questi ultimi tre annie' stata rispettivamente
attratta dal mesmerismo (o magnetismo animaledal nome del medico
tedesco Franz Mesmer (1734-1815)ideatore di tale teoria. N.d.r)e circa
nove mesi or sono mi venne in mente cosi' all'improvviso che nella serie
delle esperienze da me sino a quel momento compiute vi era stata
un'omissione gravissima e assolutamente ingiustificabileche cioe'
nessuno era ancora mai stato mesmerizzato in ARTICULO MORTIS. Era da
vedere per prima cosa se in tale condizione esistesse nel paziente una
suscettibilita' qualsiasi all'influenza magnetica; secondariamentenel
caso che tale suscettibilita' esistessese questa fosse diminuita o
accresciuta dalla condizione predetta. In terzo luogo sino a qual punto
e per quanto tempopotessero essere fermate mediante questo processo le
pretese inesorabili della Morte. Vi erano ancora altri punti che
avrebbero dovuto essere accertatima i suaccennati eccitavano
particolarmente la mia curiosita'l'ultimo soprattuttoper la portata
vastissima delle sue eventuali conseguenze.
Nel guardarmi attorno in cerca di un soggetto grazie al quale io potessi
saggiare queste mie ipotesivenni indotto a pensare al mio amico
Ernest Valdemaril notissimo compilatore della "Bibliotheca Forensica"e
autore (sotto lo pseudonimo di Issachar Marx) delle versioni in polacco
del "Wallenstein" e del "Gargantua". Il signorValdemaril quale aveva
dimorato per lo piu' nel quartiere di Harlemnello Stato di New York
sin dal 1839 e' (o era) caratterizzato principalmente da un'estrema
magrezza della persona (i suoi arti inferiori rammentavano moltissimo
quelli di John Randolph)nonche'puredall'immacolato biancore dei
suoi baffi stranamente in contrasto con la nerezza dei capellii quali
di conseguenzavenivano generalmente scambiati per una parrucca. Era di
temperamento spiccatamente nervosoil che lo rendeva un soggetto ottimo
per le esperienze mesmeriche. Ero riuscito un paio di volte a farlo
addormentare quasi senza difficolta'ma ero stato deluso in altri
risultati che la sua particolare costituzione mi aveva naturalmente
indotto a prevedere. La sua volonta' non si era mai trovata
positivamente o totalmente sotto il mio controlloe in quanto alla
chiaroveggenzanon ero mai riuscito a compiere con lui nulla di
concreto. Avevo sempre attribuito il mio insuccesso su questi punti alle
sue alterate condizioni di salute. Gia' alcuni mesi prima ch'io avessi
occasione di fare la sua conoscenza i medici lo avevano dichiarato
irrevocabilmente tubercolotico. Del resto era sua abitudine parlare con
calma della propria imminente finecome di cosa che non poteva essere
ne' evitata ne' rimpianta.
Allorche' incominciai a riflettere su quanto ho accenato primafu
logicamente naturalissimo che io pensassi al signor Valdemar. Conoscevo
troppo bene la salda mente filosofica dell'uomo per temere da LUI
scrupoli di qualsiasi generene' d'altronde egli aveva parenti in
America che potessero intromettersi. Gli parlai francamente del mio
progettoe con mia sorpresa vidi di avere fortemente suscitato il suo
interesse. Dico con sorpresa perche'sebbene egli mi avesse sempre
concesso di servirmi liberamente della sua persona per le mie esperienze
non aveva mai dimostrato prima d'allora una speciale simpatia per quel che
io facevo. Il male che lo minava era di quelli che permettono un calcolo
esatto intorno al tempo della conclusione letalee infine ci accordammo
ventiquattr'ore prima del momento che i suoi medici avrebbero decretato
essere quello del trapasso.
Sono trascorsi ormai piu' di sette mesi da quando io ho ricevuto da parte
del signor Valdemar in persona il seguente biglietto:
"Caro P...
"Puo' anche venire ADESSO. D... e F... sono concordi nel dichiarareche
io non potro' durare oltre la mezzanotte di domanie ritengo che
abbiano colto pressoche' esattamente nel segno.
Valdemar".
Ricevetti questo biglietto circa mezz'ora dopo che era stato scrittoe
in capo ad altri quindici minuti mi trovavo nella camera del morente. Non
lo vedevo da dieci giornie rimasi esterrefatto dallo spaventoso
mutamento avvenuto in lui durante quel breve intervallo. Il suo volto
era soffuso di una tinta plumbea; gli occhi avevano perduto ogni lucee
la sua emaciatezza era tale che la pelle gli si era rotta sugli zigomi.
Soffriva di un'espettorazione abbondantissima: il polso era appena
percettibile. Egli aveva conservato pero' in modo sorprendente non solo
le sue piene facolta' mentalima anche una certa somma di energie
fisiche. Si esprimeva udibilmenteprendeva senza aiuto alcuni
medicamenti palliativieallorche' io entrai nella sua stanzaera
intento a segnare a matita alcuni appunti su un taccuino. Era seduto sul
letto appoggiato contro una montagna di cuscini. Lo vegliavano i dottori
D... e F...
Dopo aver stretto la mano di Valdemar presi in disparte questi signori e
ottenni da loro una relazione minuta circa le condizioni del paziente.
Il polmone sinistro era da diciotto mesi in uno stato semiosseo o
cartilaginosoed era divenuto naturalmente del tutto inservibile agli
scopi della vita. Anche il polmone destronella regione superioresi
era parzialmente se non totalmente ossificatomentre la regione
inferiore non era piu' che una massa di tubercoli purulenti confondentisi
gli uni negli altri. Esistevano varie perforazioni assai vastee in un
punto era avvenuta un'aderenza permanente alle costole. Questi sintomi
rivelati dal lobo destro erano di data relativamente recente. Il
processo di ossificazione era progradito con rapidita' assai insolita;
ancora un mese prima non ne era stato notato il minimo sintomoe
l'aderenza era stata scoperta soltanto tre giorni innanzi.
Indipendentemente dal processo di consumazioneil paziente era sospetto
di aneurisma dell'aortama in questa regione i sistemi ossei rendevano
impossibile una diagnosi esatta. Entrambi i medici erano d'opinione che
il signor Valdemar sarebbe morto verso la mezzanotte dell'indomani
(domenica). Erano in quel momento le sette del sabato sera.
Nell'allontanarsi dal capezzale dell'infermo per discorrere con mei
dotti D... e F... gli avevano rivolto un saluto finale. Non era nelle
loro intenzioni di ritornarema su mia richiesta promisero che
sarebbero venuti a dare un'occhiata al pazienteverso le dieci della
sera successiva.
Quando se ne furono andati discussi apertamente col signor Valdemar
intorno all'argomento della sua fine imminentenonche'e con maggiori
particolariintorno all'esperienza che mi proponevo di tentare. Egli si
dichiaro' tuttora dispostissimo e anzi impaziente di parteciparvie
insistette perche' iniziassi subito. Ero assistito da un infermiere e da
una infermierama non mi sentivo d'imbarcarmi in un compito di quella
fatta con testimoni cosi' poco sicurinel caso avvenisse una catastrofe
improvvisa. Rimandai percio' il tentativo alle otto circa della sera
seguenteallorche' la venuta di uno studente di medicina che conoscevo
abbastanza bene (il signor Teodoro L.....l) mi libero' da ogni ulteriore
scrupolo e incertezza. Era stato in origine mio desiderio di attendere
il ritorno dei medicima fui indotto a procedereprima di tutto dalle
incalzanti suppliche del signor Valdemare in secondo luogo dall'intimo
convincimento che non avevo un minuto da prederepoiche' lo vedevo
declinare rapidamente e a vista d'occhio.
L.....l ebbe la bonta' di aderire al mio desiderio che egli stendesse
cioe' nota di tutto quanto accadevaed e' proprio dai suoi appunti che
ho raccolto riassumendoli o copiandoli PAROLA PER PAROLA quanto sto ora
per narrare.
Mancavano circa cinque minuti alle otto quandoprendendo la mano del
pazientelo pregai di dichiararequanto piu' chiaramente gli era
possibileal signor L....lse egli (Valdemar) era realmente
consenziente che io iniziassi l'esperimento di mesmerizzazione della sua
persona nelle sue attuali condizioni.
Mi rispose debolmentee tuttavia con voce chiaramente udibile: - Si
desidero essere mesmerizzato; - aggiungendo subito dopo: - Temo che lei
abbia rimandato l'esperienza gia' di troppo.
Mentre diceva questo incominciai a eseguire i passaggi che altre volte
avevo trovato particolarmente efficaci in un soggetto quale il suo. Egli
rimase evidentemente influenzato dal primo movimento laterale della mia
mano attraverso la sua frontema benche' esercitassi tutti i miei
poteri non ottenni alcun ulteriore effetto notevole se non alcuni minuti
dopo le dieciquando cioe' sopraggiunseromantenendo fede al loro
impegnoi dottori D... e F... Spiegai loro in poche parole quel che
avevo in animoed essi non mi fecero alcuna obiezioneaffermando anzi
che il paziente era gia' entrato in stato agonico. Procedetti allora
senza esitazionesostituendo pero' ai passaggi laterali quelli con moto
verso il bassoe affissando il mio sguardo unicamente entro l'occhio
destro del paziente.
Il polso era ormai impercettibile e la respirazione rantolantecon
pause di mezzo minuto.
Questo stato rimase pressoche' immutato durante un quarto d'ora. Al
termine di questo periodo pero' dal petto del morente sfuggi' un sospiro
naturale benche' profondissimoe l'affanno stertoroso cesso'; vale a
direil rantolo agonico non era piu' udibile; le pause non diminuirono.
Le estremita' del paziente erano fredde come il ghiaccio.
Cinque minuti prima delle undici percepii i primi segni inequivocabili
dell'influenza mesmerica. Il roteare vitreo dell'occhio si muto' in
quell'espressione di inquieta disamina INTERIORE che non si avverte mai
se non nei casi di sonnambulismoe sulla quale e' del tutto impossibile
ingannarsi. Con pochi rapidi passaggi laterali feci tremare le labbra
come in un sonno incipientee con pochi altri le chiusi del tutto. Non
mi sentivo soddisfattotuttaviae continuai percio' energicamente
nelle mie manipolazioniesercitando al massimo la volonta'finche' non
ebbi irrigidito totalmente le membra del dormientenon prima pero' di
averle fissate in una posizione apparentemente comoda. Le gambe erano
dostese in tutta la loro lunghezzae cosi' anche le bracciao
pressapocoe queste posavano sul letto a una giusta distanza dai lombi.
Il capo era assai leggermente sollevato.
Quando ebbi terminato tutto cio' era mezzanotte in pienoe io chiesi ai
signori presenti di esaminare le condizioni di Valdemar. Dopo brevi
esperimenti costoro dichiararono di trovarlo in uno stato insolitamente
perfetto di TRANCE mesmerica. La curiosita' di entrambi i medici era
grandemente eccitata. Il dottor D... decise subito di restare presso il
paziente tutta la nottementre il dottor F... si congedo' con la
promessa che sarebbe ritornato all'alba. L.....l e gli infermieri
rimasero.
Lasciammo indisturbato Valdemar sino alle tre circa del mattino. A
quell'ora mi avvicinai a lui e lo trovai esattamente nelle medesime
condizioni di quando il dottor F... si era allontanato; vale a dire che
giaceva esattamente nella medesima posizione; il polso era
impercettibile; la respirazione lieve (o per meglio dire appena
avvertibilee verificabile soltanto avvicinando alle labbra uno
specchio); gli occhi erano naturalmente chiusie le membra rigide e
fredde come marmo. Tuttavia l'aspetto generale non era certo quello
della morte.
Nell'avvicinarmi a Valdemarfeci una specie di semisforzo nel tentativo
di influenzare il suo braccio destro a seguire il mioche feci passare
dolcemente innanzi e indietro sulla sua persona. In questi esperimenti
su di lui non ero mai del tutto riuscito prima d'allorae certo non
speravo molto di riuscirvi adessoma con mio stupore il suo braccio
assai prontamenteseppur debolmenteprese a seguire ogni direzione da me
indicata col mio. Decisi di arrischiare qualche parola di conversazione.
- Signor Valdemar- dissi- dorme? - Non mi diede rispostama
avvertii un tremito intorno alle labbra e mi sentii percio' indotto a
ripetere la domanda una seconda volta. Alla terza tutto il suo corpo fu
agitato da un brivido lievissimo; le palpebre si dischiusero sino a
lasciare intravedere un segmento bianco del globo oculare; le labbra si
mossero pigramentee da esse in un sussurro a stento udibile uscirono
queste parole:
- Si; adesso dormo. Non mi svegliate! Lasciatemi morire cosi'...
A questo punto gli tastai le membra e le sentii piu' rigide che mai. Il
braccio destocome primaobbedi' alla direzione della mia mano.
Interrogai nuovamente il sonnambulo:
- Sente ancora dolore al pettosignor Valdemar?
La risposta ora fu immediatama perfino piu' impercettibile della
precedente:
- Nessun dolore... Sto morendo...
Non ritenni prudente di disturbarlo oltre proprio in quel momentoe
null'altro fu detto o fatto sino al ritorno del dottor F...il quale
giunse poco prima dell'albaed espresse il piu' illimitato stupore nel
trovare il paziente ancora in vita. Dopo avergli tastato il polso e
avergli avvicinato uno specchio alle labbra mi prego' di rivolgere
nuovamente la parola al sonnambulo. Obbedii e dissi:
- Signor Valdemardorme ancora?
Come per l'innanzitrascorsero alcuni minuti prima che potessi ottenere
una risposta; e durante questa pausa il morente parve raccogliere tutte
le sue energie per parlare. Alla quarta ripetizione della domanda disse
debolissimamentecon voce appena percettibile:
- Siancora... Muoio.
I medici dimostrarono ora il parereo meglio il desiderioche
Valdemar fosse lasciato indisturbato in quel suo stato di apparente
tranquillita'sino al sopravvenire della mortela qualesecondo
l'opinione generaleera ormai questione di pochi minuti. Decisi
nondimeno di rivolgergli la parola ancora una voltalimitandomi a
ripetere la domanda postagli in precedenza.
Mentre parlavo si produsse nell'aspetto del sonnambulo un mutamentosensibile.
Gli occhi si aprirono da solilentamenteroteandole pupille scomparvero
all'insu'; la pelle assunse una sfumatura cadavericavenendo arassomigliare
non tanto alla pergamenaquanto a un foglio di carta bianca. E le macchie
circolari tipiche dell'etisia che sino a quel momento erano risaltate con
evidenza al centro di ciascuna guanciasi estinsero a un tratto. Uso
quest'espressionepoiche' la subitaneita' della loro scomparsa mi diede la
sensazione dello spegnersi di una candela sotto un soffio di fiato. Illabbro
superiorecontemporaneamentesi accartoccio' scostandosi dai denticheprima
ne erano stati completamente copertimentre la mascella inferiore caddecon uno
scatto seccolasciando la bocca spalancata e rivelando in pieno la lingua
enfiata e annerita. Immagino che tutti coloro che si trovavano nella stanza
fossero da tempo abituati agli orrori della mortema in quel momentol'aspetto
di Valdemar era cosi' terribilmente spaventosoche tutti si ritrassero
istintivamente dal letto.
Ho l'impressione di essere giunto al punto di questa mia narrazione in cuitutti
i miei lettori rimarranno irriducibilmente increduli. Ma e' mio compito
limitarmi a proseguire nel racconto.
Il corpo di Valdemar non presentava ormai piu' il benche' minimo segno di
vitae giudicandolo morto stavamo per affidarlo alle cure degli
infermieriallorche' avvertimmo nella lingua un forte movimento
vibratorioil quale si protrasse per forse un minuto. Al termine di
questousci' dalle mascelle contratte e immobili una voce quale sarebbe
demenza da parte mia tentare di descrivere. Vi sono in realta' due o tre
aggettivi che potrebbero essere usati con sufficiente approssimazione
per raffigurarla; potrei dire per esempio che il suono di quella voce era
asprospezzatocavo; ma essa e' indescrivibile nel suo spaventoso
complessoper il semplice motivo che un suono simile mai e' giunto a
orecchie umane. Vi erano pero' in essa due particolari che giudicai
allorae giudico tuttoracome abbastanza caratteristici
dell'intonazionee anche abbastanza adatti a rendere l'idea della sua
extraterrena stranezza. Prima di tuttosembrava che la voce giungesse
alle nostre orecchiealle mie almenoda una distanza enormeo da
qualche profonda caverna sotto la superficie della terra. In secondo
luogo essa m'impressiono' (temo veramente che mi sara' impossibile farmi
intendere) cosi' come una sostanza gelatinosa o glutinosa impressiona il
senso del tatto.
Ho parlato sia di "suono"sia di "voce". Intendo direcon questo che il
suono aveva una sillabazione distinta; oserei anzi aggiungere:
meravigliosamentesorprendentemente distinta. Valdemar PARLAVA
evidentemente in risposta alla domanda che io gli avevo rivolto alcuni
minuti prima. Gli avevo chiestosi ricordera'se dormisse ancora. Egli
ora mi rispose:
- Si; no; HO dormitoe adessoadesso... sono morto.
Nessuno dei presenti cerco' di dissimulareo tento' di reprimere
l'orrore indicibileraccapriccianteche queste poche parolecosi'
pronunciateerano destinate a suscitare. L.....l (lo studente) svenne.
Gli infermieri lasciarono immediatamente la stanza e nulla pote' indurli
a ritornare. Non tentero' di spiegare al lettore le mie impressioni
personali. Per circa un'ora ci affaccendammo in silenziosenza
proferire una sola parolaa cercar di rianimare L.....l. Quando questi si
riebbe ci rimettemmo allo studio delle condizioni di Valdemar.
Queste erano rimaste in tutto e per tutto come io le ho piu' sopra
descrittea eccezione che lo specchio ora non offriva piu' traccia di
respirazione. Un tentativo di cavar sangue dal braccio falli'. Devo
inoltre aggiungere che quest'arto non era piu' soggetto alla mia
volonta'. Invano tentai di fargli seguire la direzione della mia mano.
Il solo indice tangibile dell'influsso mesmerico era ora avvertibile nel
moto vibratorio della linguaogni qualvolta io rivolgevo una domanda a
Valdemar. Sembrava ogni volta li' li' per risponderema non aveva piu'
volitivita' bastante. Alle domande rivoltegli da altri appariva essere
del tutto insensibileper quanto io cercassi di porre ciascuno degli
astanti in RAPPORTO mesmerico con lui. Credo di avere ormai riferito
quanto e' necessario per la comprensione dello stato del sonnambulo in
quel momento. Vennero mandati a chiamare altri infermieria alle dieci
lasciai la casa in compagnia dei due medici e di L.....l.
Nel pomeriggio ritornammo tutti insieme a visitare il paziente. Le sue
condizioni erano rimaste precisamente le stesse. Discutemmo alquanto
circa la convenienza e la possibilita' di risvegliarloma non tardammo
ad accordarci che non avremmo ottenuto con questo alcun risultato
positivo. Era evidente che la morte (o cio' che di solito si definisce
morte) era stata arrestata dal processo mesmerico. Tutti convenimmo che
risvegliare Valdemar sarebbe equivalso a provocare la sua immediata o
comunque rapida disgregazione.
Da quel momento sino al termine della scorsa settimanaDURANTE DUNQUE
UN INTERVALLO DI QUASI SETTE MESIcontinuammo a recarci giornalmente a
casa di Valdemaraccompagnati di quando in quando da uomini di medicina
e altri amici. In tutto questo tempo il sonnambulo e' rimasto ESATTAMENTE
come io l'ho descritto. Gli infermieri lo sorvegliavano senza
interruzione.
Fu venerdi' scorso che decidemmo finalmente di tentare l'esperienza del
risvegliodi cercare cioe' di destarlo; ed e' (forse) lo sfortunato
risultato di quest'ultimo esperimento che ha suscitato tante discussioni
nei circoli privatie cio'in una parolache io non posso fare a meno
di giudicare un risentimento popolare ingiustificato.
Allo scopo di liberare Valdemar dalla TRANCE mesmericausai i soliti
passaggi. Questi rimasero per un certo tempo infruttuosi. Il primo
indice di rinascita fu rivelato da un abbassamento parziale dell'iride.
Venne osservatocome particolarmente degno di notache questa discesa
della pupilla fu accompagnata da una irrorazione profusa di icore
giallastro (da sotto alle palpebre) di odore pungente e fetidissimo.
Venni successivamente consigliato di tentar d'influenzare il braccio del
pazientecome per l'innanzi. Questo tentativo pero' falli'. Il dottor
F... espresse allora il desiderio che io formulassi una domanda. Obbedii
e chiesi:
- Signor Valdemarpuo' spiegarci quali sono attualmente le sue
sensazioni o i suoi desideri?
Per un attimo le guance si reinvermigliarono delle loro caratteristiche
macchie d'etisia; la lingua vibro'o meglio roteo' violentemente nella
bocca (benche' labbra e mascella restassero rigide come per l'innanzi) e
infine quella medesima voce spaventosa che gia' ho descritta proruppe:
- Per amor di Dio! Presto! Presto! Mettetemi a dormire. Oppure...
presto! svegliatemi! Presto! VI DICO CHE SONO MORTO!
Ero indicibilmente sconvoltoe per un attimo rimasi incerto su quel che
dovevo fare. Tentai dapprima di ricomporre il pazientemafallito
questo tentativo per la totale sospensione della volonta'ritornai sul
mio operato e con altrettanta energia lottai per svegliarlo. Questa
volta mi avvidi subito che sarei riuscito o per lo meno mi lusingai che
tra breve il mio successo sarebbe stato completoe sono certo che tutti
nella stanza erano preparati ad assistere al risveglio del paziente.
Ma a quanto in realta' avvennenon era davvero possibile essere
preparati.
Mentre eseguivo rapidamente i passaggi mesmerici tra esclamazioni di
"morto! morto!" che letteralmente PROROMPEVANO dalla linguaanziche'
dalle labbra del pazientetutto il corpo di questiimmediatamente
nello spazio di un solo minutoforse anche menosi rattrappi'si
sbriciolo'in una parola si CORRUPPE e si DISSOLSE sotto le mie mani.
Sul lettodi fronte a tutti i presentinon rimase che una massa quasi
liquida di putridume ributtante spaventoso.

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sabato 3 novembre 2012, ore 13:59
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Messaggio Re: racconti brividosi...
grande POE!!!!

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Messaggio Re: racconti brividosi...
ryoga ha scritto:
grande POE!!!!


Era un racconto che avevo in un libro raccolta.

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Messaggio Re: racconti brividosi...
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Messaggio Re: racconti brividosi...
JohnCaulfield ha scritto:
ryoga ha scritto:
Si risvegliò completamente sudato nel buio totale. L’unica luce nella stanza era il lampadine led della sveglia sul suo comodino che segnava le 00.30. Aveva il respiro affannato e nella sua testa continuava a sentire quella voce che ripeteva il suo nome. Era sdraiato su di un lato, rivolto verso il muro, pietrificato dal terrore per il sogno appena fatto. Fortunatamente sentì dietro di lui la presenza di sua moglie: il suo braccio stava cingendo il suo petto. Non l’aveva sentita rientrare. Udiva il suo sbuffo, a metà tra il russare e il respiro profondo. Prese la sua mano tra le sue e la sentì gelida: Giada aveva sempre le mani e i piedi freddi.
Giada non riuscì mai a spiegarsi due cose: il letto dalla sua parte era tutto stropicciato, come se qualcuno ci avesse dormito. E Carlo aveva i capelli completamente bianchi.

OMG! E 'un lungo lungo post lungo. Sarà sicuramente prendere la mia notte piena di leggere. Ma informativo!

google tanslator non è sempre affidabile!

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Quelli che sfruttano le risorse in Africa,sono gli stessi che sfruttano l'Europa.
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Messaggio Re: racconti brividosi...
:lol:

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Messaggio Re: racconti brividosi...
ryoga ha scritto:
dolcetto o scherzetto?

"Dannato Halloween", grugnì William Scott mentre sbirciava fuori dalla finestra i gruppetti di bambini che si spostavano da una casa all'altra in cerca di dolci e caramelle.
Lui odiava Halloween. L'aveva sempre odiato, fin da bambino, posto che gli fosse mai capitata una cosa orrenda come l'infanzia. A ottantadue anni continuava a detestarlo, così come detestava i mille acciacchi che affliggevano il suo corpo di vecchio. La considerava la festa più idiota dell'universo, persino più idiota di quella di San Valentino. Quei cerebrolesi in costume suonavano il campanello di continuo, dondolandosi sulle gambette in attesa che lui venisse ad aprire. Protendevano le loro mani e lo fissavano con quegli occhietti capaci di intenerire un qualsiasi adulto dotato di un briciolo di istinto materno o paterno. Tranne lui. Perché lui li odiava in modo viscerale, ecco dove stava la differenza. Durante l'anno i bastardi non facevano altro che ideare scherzi crudeli ai suoi danni, per poi presentarsi ad Halloween sulla soglia di casa con l'aureola sopra la testa.
"Piccoli mocciosi..." sussurrò tra le pieghe di una smorfia di puro disgusto. Li vedeva dalla finestra e scuoteva la testa. Ce n'erano a decine, là fuori. Saltellavano, gridavano, sghignazzavano. Avrebbe venduto l'anima al diavolo in cambio di un acquazzone di acido solforico. Poltiglia d'infanti lungo tutte le strade. Il sogno della sua vita.
Aggrottò le sopracciglia quando vide Casper il fantasmino e Dracula il vampiro che si avvicinavano alla sua porta. Li guidava una bambina che calzava sulla testa una zucca di Halloween di plastica. La zucca era intagliata come si usa fare con quelle vere, con due triangoli al posto degli occhi, uno per il naso, e una zigzagante linea incurvata all'insù per bocca. Il suo travestimento finiva lì. Di seguito venivano un normalissimo vestitino bianco e un paio di scarpette nere di vernice.
"Ma che cariiini..." sibilò William ghignando. Il suo viso era una ragnatela di rughe, maschera di una vecchiaia acida e solitaria. Udì il campanello e si voltò verso la porta.
"Hanno davvero il coraggio di venire qui?" chiese sorpreso alla stanza vuota. Il campanello suonò di nuovo e i suoi occhi acquosi si animarono di odio e disprezzo. "Ah, sì? Adesso vi faccio vedere io."
Andò alla porta e la spalancò di colpo. Casper e Dracula trasalirono e lo fissarono intimoriti. Lui ne fu contento. Non riusciva a vedere l'espressione della bambina, ma era più che sicuro che anche lei si fosse spaventata.
"Dolcetto o scherzetto?" chiese la bambina. Tese la mano verso di lui senza esitare. La sua voce era soffocata da quella specie di casco arancione che indossava, ma William ebbe comunque l'impressione che fosse troppo matura per la sua età.
"Andatevene via, stupidi mocciosi", brontolò.
La bambina non si scompose. Prese a dondolarsi sulle gambette, proprio in quel modo che lui odiava, e ripeté: "Dolcetto o scherzetto?"
"Ma quale dolcetto e scherzetto!" gracchiò William. "Se non ve ne andate subito, io..."
"Dolcetto o scherzetto?" chiese di nuovo la bambina.
Perplesso, William fissò i due triangoli che la zucca aveva per occhi, cercando di vedere qualcosa. Il buio. Non gli riuscì di scorgere il più vago particolare del suo viso. Sembrava che dentro la zucca non ci fosse proprio nessun viso da vedere. Allungò una mano e batté le nocche sulla plastica arancione. Ne ricavò il rumore di due colpi dati a un contenitore di plastica vuoto.
"Dolcetto o scherzetto?" fece la bambina. Stessa cantilena, stessa intonazione. Come una bambola parlante.
"Ma sei sorda?" chiese William. "Ho detto di levarti dai piedi!"
"Dolcetto o scherzetto?"
William scosse la testa. "Non sei sorda, sei soltanto stupida. Levati dai piedi."
"Dolcetto o scherzetto?"
Infuriato, William fece uno scatto in avanti e ringhiò per spaventarla. Casper e Dracula fuggirono all'istante. Lei invece rimase dov'era.
"Non hai paura?" chiese William con voce pacata ma piena di minaccia.
La zucca fece segno di no e la bambina tese la mano un po' di più. "Dolcetto o scherzetto?"
"Io non ti do proprio nessun dolcetto, piccola rompiscatole."
"Scherzetto?"
"Ma certo, fammi questo scherzetto. Vediamolo, il tuo scherzetto. Voglio proprio vedere cosa..."
La bimba si frugò in tasca e tirò fuori un sacchettino di pelle nera, accuratamente chiuso con un laccio. Lo tese verso di lui e disse:"Scherzetto."
"Che cos'è?" domandò William lanciandole uno sguardo truce. Quella mossa non se l'era proprio aspettata. Avrebbe giurato che nel giro di qualche secondo gli sarebbero piovute addosso un paio di manciate di coriandoli o di stelle filanti. Lui naturalmente avrebbe dato in escandescenze e la bambina sarebbe scappata di corsa, sghignazzando stupidamente come facevano tutti i cerebrolesi della sua età. Invece la piccola vipera gli porgeva un sacchettino misterioso che, malgrado tutto, era riuscito a catturare la sua curiosità. "Avanti, che cosa sarebbe questa stupidaggine?"
"Scherzetto", rispose tranquilla la bambina e agitò il sacchettino per invitarlo a prenderlo.
"Cosa c'è lì dentro?"
"Scherzetto", ripeté la bambina e fece dondolare ancora il sacchettino. "Scherzetto, scherzetto, scherzetto!"
L'espressione sul volto di William passò dal disprezzo alla compassione. "Piccola idiota. Lo sa tua madre quanto sei idiota?"
Il sacchettino smise di oscillare e le orbite vuote della zucca lo fissarono in silenzio. La bambina depositò il sacchetto sullo zerbino.
"Niente dolcetto, perciò scherzetto", sentenziò. Gli voltò le spalle e trotterellò via, andando a unirsi agli altri bambini.
"Che scherzetto del cavolo", borbottò William e posò gli occhi sul piccolo oggetto che giaceva in mezzo allo zerbino. "Te lo do io, il dolcetto, se ti pesco un'altra volta a suonare il mio campanello." Si guardò attorno per assicurarsi che l'odiosa bambina non lo stesse tenendo d'occhio. Non si vedeva nessuna zucca arancione spuntare tra le testoline dei bambini che transitavano davanti a casa sua. Si chinò e prese il sacchettino per il laccio. Rientrò in casa e sedette sul divano. Tastò con cautela l'involucro di pelle nera per cercare di indovinare cosa contenesse, ma alla fine dovette ammettere di avere le idee piuttosto confuse. Sbuffò seccato e si decise a sciogliere il laccio. Quindi lo scosse vigorosamente per farne uscire il contenuto.
Lo scorpione cadde sulla sua coscia destra, alzò il pungiglione e lo affondò nella carne della gamba, rapido e spietato.

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domenica 6 ottobre 2013, ore 11:14
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Messaggio Re: racconti brividosi...
un classico :)

la tomba di H.P. Lovecraft


Sedibus ut saltem placidìs in morte quìescam.Virgilio
Nel tracciare un resoconto degli eventi che hanno determinato la mia reclusione in questo asilo per alienati, ho piena coscienza del fatto che il mio stato attuale susciterà dubbi più che naturali sulla veridicità della mia narrazione.E’ una vera sciagura che la gran massa dell’umanità possegga una visione mentale troppo ristretta per valutare con obiettività e intelligenza quei rari e particolari fenomeni - visti e percepiti esclusivamente da una minoranza di individui psicologicamente sensibili - che trascendono l’esperienza ordinaria.Gli uomini di più vasto intelletto ben sanno che non esiste una netta distinzione tra il reale e l’irreale, e che tutte le cose devono la loro apparenza soltanto ai fallaci mezzi mentali e psichici di cui l’individuo è dotato, attraverso i quali prende coscienza del mondo. Il prosaico materialismo della maggioranza condanna invece quei lampi di una visione superiore che penetrano il velo comune dell’ovvio empirismo, classificandoli come manifestazioni di follia.Mi chiamo Jervas Dudley e, fin dalla primissima infanzia, sono stato un sognatore e un visionario. Ricco abbastanza da non dovermi guadagnare da vivere, e avverso per temperamento agli studi formali e allo svago sociale derivante dalla compagnia dei miei conoscenti, ho sempre dimorato in reami distinti dal mondo visibile.Ho trascorso l’adolescenza e la giovinezza tra i libri antichi, noti a pochi, e vagando tra i campi e i boschi della regione circostante la mia dimora ancestrale. Dubito che quanto leggevo in quei libri e vedevo in quei boschi corrispondesse esattamente a quanto gli altri fanciulli leggevano o vedevano: ma su ciò non posso dilungarmi giacché, scendendo nei particolari, non farei altro che confermare le crudeli calunnie a proposito del mio stato mentale che talvolta colgo tra i bisbigli dei furtivi infermieri che mi sono d’attorno.Mi limiterò quindi a riferire i fatti, senza analizzarne le cause.Come ho detto, mi sono allontanato dal mondo visibile: ma ciò non significa ch’io sia vissuto in piena solitudine.Ciò non è dato a nessuna creatura umana poiché, nell’assenza della compagnia dei vivi, l’uomo inevitabilmente si volge alla compagnia delle cose non vive, o che comunque non sono più tali.Nei pressi dell’antica magione della mia famiglia si estende una singolare valletta boscosa nelle cui profondità crepuscolari trascorrevo buona parte del mio tempo, a leggere, a meditare, a sognare. Lungo le sue pendici muscose mossi i miei primi passi di bimbo, e attorno alle grottesche nodosità delle sue querce intrecciai le mie, prime fantasie di ragazzo. Fu lì che ebbi a conoscere le driadi che presiedono a quegli alberi, osservandole sovente nelle loro danze lascive sotto i deboli raggi della luna calante.Ma non è questo il momento adatto per parlare ditali cose. Racconterò dunque soltanto della tomba solitaria situata nella fitta boscaglia sulle pendici del colle, la tomba abbandonata degli Hyde, un’antica e nobile famiglia il cui ultimo diretto discendente fu riposto nella sua scura cripta molti decenni prima ch’io nascessi.Il sepolcro al quale alludo è un’antica costruzione di granito, corroso e dilavato dalle nebbie e dall’umidità di generazioni. Ne è visibile soltanto l’ingresso, giacché, la parte posteriore della struttura è scavata nel terreno collinoso. La porta, una lugubre e massiccia lastra di pietra, ruota su cardini arrugginiti e, secondo una macabra consuetudine di mezzo secolo fa, è tenuta socchiusa in modo misteriosamente sinistro per mezzo di pesanti catene e lucchetti di ferro.La dimora della schiatta i cui rampolli lì riposano, chiusi in urne, aveva una volta dominato la collina che ora ospitava la tomba: ma già da lungo tempo era stata divorata dalle fiamme divampate a seguito di un fulmine abbattutosi su di essa. Di quel temporale notturno che distrusse il tetro castello, i vecchi abitanti della zona mi parlarono talvolta in tono sommesso e inquieto, alludendo alla «collera divina» in maniera tale da accrescere vagamente, negli anni successivi, il fascino tenebroso già profondo che il sepolcro immerso nell’oscurità boschiva esercitava su di me.Un solo uomo era perito nell’incendio. Quando infine l’ultimo degli Hyde fu sepolto in quel regno di ombra e silenzio, la mesta urna di ceneri giunse da un paese lontano, nel quale la famiglia si era rifugiata dopo che il castello fu arso dalle fiamme. Oggi, nessuno è rimasto per depositare i fiori dinanzi al portale di granito, e pochi sono coloro che osano sfidare le ombre tetre che sembrano muoversi stranamente tra le pietre erose dall’acqua.Non dimenticherò mai il pomeriggio nel quale per la prima volta m’imbattei in quella seminascosta casa della morte. L’estate era nel pieno del suo fulgore, quando l’alchimia della natura trasmuta il paesaggio silvano in una vivida e quasi omogenea massa verde, quando i sensi sono pressoché ubriacati dal mare ondeggiante d’erba e rami, e dagli umori misteriosamente indefinibili che si effondono dalla terra e dai vegetali.In un simile ambiente, la mente perde la sua prospettiva, il tempo e lo spazio divengono banalità inconsistenti, e gli echi di un perduto passato ancestrale martellanO ostinati sulla coscienza prigioniera dell’incanto.Tutto il giorno avevo errato tra i magici boschi della valle, assorto in pensieri dei quali non occorre riferire, e conversando con cose che non occorre nominare. Per essere un fanciullo di dieci anni, avevo già vi sto e udito prodigi ignoti ai più, e per certi versi ero curiosamente maturo.Quando, dopo essermi fatto faticosamente largo tra due selvaggi roveti, mi imbattei d’improvviso nell’ingresso del sepolcro, non avevo la minima nozione di quel che avevo scoperto. I cupi blocchi di granito, la porta così sinistrarneflte socchiusa, le sculture funerarie che sormontavano l’arco, nulla di tutto ciò rimandò la mia mente a pensieri lugubri o spaventosi.Sulle tombe e i sepolcri sapevo e fantasticavo parecchio, ma a motivo del mio singolare temperamento ero sempre stato tenuto lontano da cimiteri e camposanti. La strana costruzione di pietra sul pendio boscoso fu quindi per me una pura fonte di interesse e immaginazione, e il freddo e umido interno nel quale inutilmente sbirciai attraverso la porta così allettantemente socchiusa, non suscitò in me la benché minima impressione di morte o dissoluzione.Ma fu proprio in quell’attimo di curiosità che nacque in me la brama folle e irragionevole che mi ha condotto a questa segregazione infernale. Incitato da una voce che doveva giungere dalla stessa, spaventosa, anima della foresta, mi risolsi ad entrare in quella invitante penombra malgrado le massicce catene che mi sbarravano il passaggio. E, nella luce diurna che si affievoliva, presi a scuotere con fragore i cardini rugginosi col proposito, frustrato, di spalancare la porta di pietra. Tentai anche di far passare la mia minuta figura attraverso l’angusto spazio disponibile, ma entrambi i tentativi fallirono.Dapprima semplicemente curioso, ero ormai assalito da una vera e propria frenesia e, mentre nel crepuscolo che si addensava facevo ritorno a casa, avevo giurato alle cento divinità del bosco che un giorno avrei forzato ad ogni costo quel nero e gelido recesso che pareva esercitare su di me un così intenso richiamo. Il medico con la ferrigna barba grigia che quotidianamente viene nella mia stanza, ha detto una volta ad un visitatore che proprio questa mia decisione segnò l’inizio della mia pietosa monomania: ma lascerò che siano i lettori, dopo aver appreso la mia storia per intero, ad esprimere il giudizio finale.I mesi che seguirono alla scoperta, li trascorsi in futili tentativi di forzare le complicate serrature della tomba socchiusa, e facendo caute indagini sulla storia e l’origine di quella costruzione. Grazie alla naturale ricettività dei ragazzi, appresi molto dalla mia indagine, quantunque l’abituale, ritrosa riservatezza mi imponesse di non rivelare ad alcuno le notizie acquisite né i miei futuri intendimenti.Vai forse la pena di precisare che non fui per nulla sorpreso o terrorizzato nell’apprendere quale fosse la natura della costruzione. Le mie concezioni alquanto originali a proposito della vita e della morte, mi avevano da tempo indotto a tracciare confuse associazioni tra le fredde spoglie dei morti e quelli che erano stati i loro corpi vivi e palpitanti, sicché immaginavo che la nobile e sinistra famiglia del maniero distrutto dalla fiamma fosse in un certo qual modo rappresentata all’interno dello spazio di pietra che intendevo esplorare.I racconti a mezza voce circa misteriosi riti magici e orge sacrileghe che si sarebbero svolti in anni remoti nei saloni della dimora distrutta aggiunsero un nuovo e pressante interesse per la tomba presso la cui porta sedevo ore e ore ogni dì. Una volta misi una candela nella stretta fessura, ma non vidi altro che una rampa di essudanti gradini di pietra che scendevano verso il basso. Il lezzo che esalava da quel luogo mi ripugnava, ma al tempo stesso mi ammaliava. Sentivo di averlo conosciuto in un passato così remoto da superare ogni ricordo, risalente persino oltre il corpo che ora posseggo.Era trascorso un anno da quando avevo scoperto la tomba, allorché, frugando tra i libri stipati nella soffitta di casa mia, mi Capitò tra le mani un antica traduzione delle Vite di Plutarco, consunta e rosa dai vermi. Leggendo la vita di Teseo, fui estremamente colpito dal brano nel quale si narrava del grande masso sotto il quale l’eroe fanciullo avrebbe trovato i segni del suo destino, quando fosse cresciuto abbastanza da sollevarne l’enorme peso.La leggenda di Teseo sortì l’effetto di dissipare la mia violentissima impazienza di penetrare nella cripta, suggerendomi che non era giunto ancora il momento propizio. Col tempo, dissi a me stesso, avrei posseduto la forza e l’ingegno che mi avrebbero consentito di disserrare senza sforzo alcuno la porta legata dalle pesanti catene. Ma, fino a quel momento, sarebbe stato più saggio che mi assoggettassi a ciò che il fato pareva aver deciso per me.Di conseguenza, le mie contemplazioni dell’umido portale si fecero meno ostinate, e dedicai buona parte del tempo ad altre divagazioni, seppur di natura egualmente bizzarra. Talvolta mi alzavo nel cuore della notte e, furtivamente, mi allontanavo dalla casa vagando nei camposanti e negli altri luoghi di sepoltura dai quali i miei genitori mi avevano sempre tenuto lontano.Non so dire che cosa vi facessi, non essendo oggi sicuro della realtà di taluni fenomeni; ad ogni modo, so che il giorno che seguiva a quelle peregrinazioni notturne, ero solito sbigottire chi mi stava d’attorno con la mia conoscenza difatti quasi del tutto dimenticati da lunghe generazioni.Fu dopo una di queste notti che sbalordii i miei interlocutori con una stravagante intuizione a proposito della sepoltura di un ricco e celebre personaggio della storia locale, lo Squire Brewster, sepolto nel 1711, la cui lapide d’ardesia recante l’effigie di un teschio con ossa incrociate si stava lentamente sgretolando, riducendosi in polvere.In un lampo di fanciullesca immaginazione, dichiarai che Goodman Simpson - il becchino che si era occupato delle esequie - aveva rubato al defunto le scarpe con le fibbie d’argento, le calze di seta, e la biancheria di raso prima di seppellirlo. E, come se non bastasse, aggiunsi che lo Squire in persona, non ancora del tutto esanime, si era rivoltato due volte nella bara inter rata il giorno dopo la sepoltura.Frattanto, l’idea di entrare nel sepolcro sulla collina non abbandonava mai i miei pensieri, e il mio proposito fu vieppiù stimolato da un’inattesa scoperta genealogica. Appresi difatti che i miei avi per parte di madre possedevano un legame, per quanto assai debole, con la famiglia Hyde, da tutti ritenuta estinta. Ultimo della stirpe paterna, mi trovavo quindi a essere allo stesso modo l’ultimo discendente di quella dinastia ancor più antica e misteriosa.Cominciai così a sentire che quella tomba era mia, e a pregustare con ansia il momento in cui ne avrei varcato la porta di pietra e sarei disceso lungo i viscidi gradini fino a scivolare nelle tenebre. Fu allora che presi l’abitudine di prestare ascolto con grande concentrazione vicino alla fessura del portale chiuso, scegliendo per le mie strane veglie le dilette ore della quiete notturna.Raggiunta che ebbi la maggiore età, avevo trasformato in una piccola radura la boscaglia prospiciente la facciata ammuffita sul pendio collinare, facendo sì che la vegetazione circostante racchiudesse e sovrastasse lo spazio, in modo da formare quasi le pareti e il tetto di un rifugio silvano. Quel ritiro divenne il mio tempio, e la porta semichiusa il mio santuario, dove passavo le ore disteso sul terreno muschioso a meditare strani pensieri e a sognare strane cose.La notte della prima rivelazione vi era un’afa soffocante. Stremato, dovevo essermi addormentato giacché, quando udii le voci, ebbi la netta impressione di ridestarmi. Dei toni e degli accenti di quelle voci esito a parlare, né accennerò alla loro qualità. Posso invece dire che presentavano tra loro alcune misteriose differenze nel lessico, nella pronunzia e nel modo di articolare i suoni. Ogni sfumatura del dialetto del New England, a partire dalle rozze sillabe dei primi coloni puritani fino alla meticolosa retorica di cinquant’anni or sono, sembrava fosse rappresentata in quell’oscuro colloquio, benché soltanto più tardi mi fossi reso conto ditale particolare.In quell’istante la mia attenzione fu distolta da un altro fenomeno, un fenomeno così effimero che non potrei giurare sulla sua veridicità. Si trattò semplicemente di questo: nel momento in cui mi risvegliai, mi parve che una luce si fosse repentinamente spenta all’interno del sepolcro. La cosa non mi lasciò sbigottito e neppure atterrito, ma so per certo che da quella notte mi sentii profondamente e definitivamente cambiato.Non appena rientrai a casa, mi diressi senza esitare alla soffitta, dove in una decrepita cassapanca trovai la chiave che all’indomani infranse, con un semplice scatto, la barriera che invano e cosi a lungo avevo attaccato.Fu nel tenue bagliore del pomeriggio inoltrato che entrai per la prima volta nella cripta sulla collina deserta.Soggiogato da un incantesimo, il mio cuore pulsava al ritmo di un’esultanza che non mi è dato di descrivere nella sua vera intensità.Richiusi la porta alle spalle e, giovandomi del chiarore dell’unica candela che avevo con me, presi a discendere i gradini stillanti umidità. Mi pareva di conoscere la strada e, sebbene la fiamma tremolasse all’alito soffocante delle esalazioni di quel luogo, mi sentivo straordinariamente a mio agio nell’aria ammuffita di quell’ossario.Mi guardai attorno e il mio sguardo cadde su molte lastre di marmo che sorreggevano file di bare, o resti di esse. Alcuni dei feretri erano intatti e sigillati, mentre altri si erano pressoché dissolti, e ne restavano solo le maniglie e le piastre d’argento, isolate tra certi curiosi mucchietti di polvere biancastra.Una delle targhe recava il nome di Sir Geoffrey Hyde, giunto dal Sussex nel 1640 e morto qualche anno dopo. In una nicchia posta bene in vista c’era invece una bara vuota e ben conservata. Recava solo un nome di battesimo, la cui lettura mi causò un sorriso, e nello stesso tempo un brivido. Un bizzarro impulso mi indusse a montare sull’ampia lastra marmorea, a spegnere la candela e quindi a sdraiarmi nella cassa vuota.Nella grigia luce dell’alba, uscii vacillando dal sepolcro e richiusi nuovamente il lucchetto della massiccia catena. Non ero più giovane, quantunque soltanto ventuno inverni avessero raggelato le mie membra. Gli abitanti del villaggio più mattinieri nei quali mi imbattei sulla via di casa, osservarono il mio curioso incedere, e si stupirono alla vista di quelli che apparentemente erano segni di sfrenata baldoria che scorgevano su un individuo che conduceva un’esistenza notoriamente sobria e solitaria. Non mi mostrai ai miei genitori se non dopo un lungo sonno ristoratore.Da quella volta frequentai la tomba ogni notte: in essa vidi, udii, e feci cose delle quali non dovrò mai ricordarmi. Il mio linguaggio, sempre ricettivo delle influenze ambientali, fu il primo a risentire del mutamento, e ben presto fu notata la dizione arcaica che avevo improvvisamente adottato. Non trascorse molto tempo perché la mia condotta si facesse curiosamente audace e temeraria, fino a far sì che inconsciamente assumessi l’atteggiamento dell’uomo di mondo malgrado la lunga segregazione.La lingua, prima silente, si fece loquace sfoggiando la grazia leggiadra di un Chesterfield o il cinismo spregiudicato di un Rochester. Feci mostra di una singolare erudizione, dissimile in tutto dalla cultura romantica e monastica della quale mi ero nutrito in gioventù, e riempii le pagine vuote all’inizio e alla fine dei miei libri con epigrammi sgorgati di getto dalla mia penna: versi che rievocavano lo stile di Gay, Prior e dei più brillanti pensatori e poeti dell’età augustea.Un mattino, a colazione, per poco non combinai un disastro allorché mi misi a declamare, con accenti palesemente ebbri, una canzonaccia da taverna settecentesca, esempio della licenziosità dell’epoca georgiana, non riportata mai in alcun libro. I versi recitavano più o meno così:
Venite, ragazzi, coi boccali di birra,E bevete al presente prima che fugga;Mettete sui piatti montagne d’arrosto,Ché solo il bere e il mangiare rendon felici.Colmate i calici,La vita è breve.E, allorché morti sarete, mai più brinderete al re o all’amata!Di Anacreonte è famoso il naso rosso;Che cosa importa, se era felice!Che Dio mi fulmini! Meglio rosso e star quiChe bianco qual giglio e morto esser lì!Suvvia Betty, fanciulla mia,Vieni a baciarmi,Che giammai all’inferno vi sarà sì bella figlia d’un oste!Il giovin Errico appena si tien ritto,E la parrucca tra un po’ non avrà più in capo,E sotto il tavolo scivolerà.Riempite i bicchieri e passateli in giro:Meglio sotto il tavolo che sotto terra!Sollazzatevi dunque in gozzoviglie,Mentre assetati tracannate:Che assai più arduo sarà ridere sotto due metri di terra!Che il diavolo mi porti! Ormai più non cammino,Ch’io sia dannato se posso star ritto!Ehi, padrone, dì a Betty che faccia venire la portantina;Me ne starò un poco alla magione, ché lì non v e mia moglie!Orsù, dammi una mano;Che ritto non so stare,Ma almen gaio trascino i giorni miei sulla cima del mondo!
Fu più o meno in quel periodo che nacque in me la paura che tuttora provo per il fuoco e per i temporali. Indifferente prima d’allora a quei fenomeni, ero ora sopraffatto da un orrore inesprimibile, tale da indurmi, ogniqualvolta il cielo minacciasse le sue manifestazioni elettriche, a trovare riparo nei recessi più impenetrabili della casa.Uno dei luoghi che di preferenza frequentavo durante il giorno, era la cantina del castello distrutto dall’incendio e, fantasticando, mi figuravo nella mente la costruzione così come doveva essere stata originariamente. Una volta lasciai allibito un abitante del villaggio accompagnandolo con spedita sicurezza in un basso sotterraneo, della cui esistenza pareva che io fossi bene a conoscenza malgrado il fatto che era chiuso e dimenticato da molte generazioni.Alla fine, poi, avvenne ciò che avevo temuto da lungo tempo. Allarmati dalla metamorfosi che avevano subito i modi e il sembiante del loro unico figliolo, i miei genitori presero ad attuare una sorveglianza discreta dei miei movimenti: fatto che minacciò di concludersi in una catastrofe.Nessuno era a conoscenza delle mie visite all’antica tomba, essendomi fin dall’infanzia dato cura di custodire il mio segreto con zelo religioso. Adesso ero costretto ad usare grande cautela nell’addentrarmi tra i boschi della valletta in modo da liberarmi, all’occorrenza, di qualche curioso pedinatore. Io solo sapevo della chiave che apriva il sepolcro, e la portavo appesa ad una cordicella che tenevo attorno al collo. E mai avevo tratto fuori dalla tomba alcuno degli oggetti che avevo scoperto all’interno delle sue mura.Ma un mattino, dopo essere uscito dall’umida tomba, mentre mi accingevo a fissare con mano malferma la catena al portale, scorsi tra i cespugli all’intorno un volto che mi stava osservando.Ebbi la certezza che la fine fosse prossima: il mio rifugio era stato scoperto, e con esso svelata la meta delle mie peregrinazioni notturne. L’uomo non si avvicinò, sicché mi affrettai a casa con l’intento di sentire ciò che la spia avrebbe riferito al mio preoccupato genitore.Era dunque giunto il momento in cui i miei soggiorni oltre la porta incatenata sarebbero stati rivelati al mondo? Immaginate allora con quale graditissimo sbigottimento udii quell’uomo informare mio padre in un circospetto sussurro che io avevo trascorso la notte nella conca davanti alla tomba, con gli occhi velati dal sonno fissi sulla fessura della porta chiusa dal lucchetto!Per quale miracolo il mio pedinatore si era ingannato a quel modo? In quell’istante mi convinsi che vi fosse un agente soprannaturale a proteggermi. Forte di questa nuova certezza giuntami direttamente dal cielo, ripresi le mie escursioni alla tomba abbandonando ogni precauzione fiducioso che nessuno mi avrebbe visto nell’atto di penetrarvi. Per una settimana gustai appieno le gioie che mi offriva una funebre convivialità che non oso descrivere, quando, improvvisamente accadde la cosa ed io fui portato via da li, e gettato in questa dimora maledetta di monotonia e sofferenza.Quella notte non avrei dovuto avventurarmi per i boschi, poiché il temporale era nell’aria e chiari segni ne recavano le nubi minacciose: in più, una fosforescenza infernale si levava dalla fetida palude nel fondo della piccola valle. Anche il richiamo dei morti era diverso. Non proveniva stavolta dalla tomba sul pendio, ma dalla cantina incenerita sulla cresta del colle, e da lassù il demone che vi signoreggiava mi faceva cenni di invito con dita invisibili.Allorché sbucai da un boschetto che attraversava la piana colIinare e mi trovai dinanzi alle rovine, osservai al chiarore della luna offuscata dalla bruma uno spettacolo che mi ero sempre vagamente aspettato: il castello, scomparso da un secolo, si innalzava nuovamente nella sua altera imponenza, mostrandosi Maestoso al mio sguardo rapito. Lo sfavillio di mille candele rifulgeva da ogni finestra, e i cocchi dei gentiluomini di Boston sfilavano lungo il vialone, mentre una folta schiera di patrizi incipriati sopraggiungeva a piedi dalle ville dei paraggi.A tal folla mi mescolai, pur consapevole che il mio posto era tra i padroni di casa piuttosto che tra gli ospiti. Il salone echeggiava di musica e risa, e calici di vino erano stretti in ogni mano. Riconobbi parecchie facce, per quanto ne avrei certo ravvisato meglio la fisionomia se fossero state raggrinzite o corrose dalla morte e dalla decomposizione.In quella moltitudine selvaggia e sconsiderata, io ero il più sfrenato e dissoluto. Torrenti di sfrontate bestemmie si riversavano dalle mie labbra, e nel mio cupo abbandono non mi curavo di alcuna legge divina o naturale.Lo scoppio improvviso di un tuono, il cui rombo sovrastò persino il baccano di quell’orgia bestiale, spaccò il tetto e zittì la chiassosa compagnia paralizzata dal terrore. Rosse lingue di fiamma e brucianti scoppi di calore inghiottirono la casa; i convitati, terrorizzati da una calamità che pareva trascendere i confini della natura incontrollata, fuggirono urlando nella notte.Rimasi solo, inchiodato alla sedia da una paura prostrante che mai prima d’allora avevo saggiato. Un secondo orrore si impossessò poi della mia anima. Arso vivo e ridotto in cenere, il corpo disperso ai quattro venti, non avrei mai potuto riposare nella tomba degli Hyde! Ma non era forse già stata preparata per me la mia bara? Non avevo dunque il diritto di riposare in eterno tra i discendenti di Sir Geoffrey Hyde? Certo! Avrei rivendicato il mio retaggio di morte, anche a costo di far vagare per anni e anni la mia anima fino a che non avesse trovato un corpo che la ospitasse e la rappresentasse su quella lastra vuota nella nicchia del sepolcro. Jervas Hyde non avrebbe mai diviso la triste sorte di Palinuro.Non appena la visione spettrale del castello in fiamme si fu dissolta, mi ritrovai ad urlare e a dibattermi furiosamente tra le braccia di due uomini, uno dei quali era la spia che mi aveva seguito fino alla tomba. La pioggia si riversava dal cielo a torrenti, e il balenio dei fulmini che poco prima erano saettati sopra le nostre teste, rischiarava l’orizzonte meridionale.Mio padre, il volto solcato dal dolore, era lì presente e, mentre gridavo che mi deponessero nella tomba, ammoniva i miei custodi a trattarmi con la maggiore delicatezza possibile. Un cerchio annerito sul pavimento della cantina distrutta rivelava con quanta violenza avesse colpito la folgore scesa dal cielo. In quel punto un gruppo di abitanti del luogo, muniti di lanterne, frugavano in una piccola cassa di antica manifattura, portata alla luce dallo scoppio del fulmine.Cessai di dibattermi essendo la mia lotta inutile e ormai priva di scopo, e presi ad osservare gli indagatori intenti ad esaminare il tesoro scoperto. Mi fu quindi permesso di prendere parte alla loro ispezione e, accostandomi al gruppo, notai che la cassa, i cui ganci di chiusura si erano rotti a seguito del fulmine che l’aveva dissotterrata, conteneva numerose carte e oggetti di valore. Ma, tra questi, una cosa soltanto attirò il mio sguardo: la miniatura in porcellana di un giovane con una elegante parrucca settecentesca recante le iniziali "J. H.".Fissandone il volto, era come se mirassi il mio stesso sembiante riflesso in uno specchio.Fui condotto all’indomani nella stanza munita di sbarre dove tuttora mi trovo, ma di certe cose sono stato messo al corrente da un vecchio e ingenuo servitore, per il quale provai affetto nell’infanzia e che, come me, ama i cimiteri.Quanto ho osato raccontare delle mie esperienze nel sepolcro, mi è valso soltanto pietosi sorrisi. Mio padre, che viene di frequente a farmi visita, sostiene che io non ho mai varcato la soglia del portale incatenato e giura che il lucchetto arrugginito, allorché egli stesso lo esaminò, era intatto da almeno cinquant’anni. Afferma persino che tutto il villaggio sapeva dellè mie visite alla tomba, e che spesso ero stato visto dormire nella capanna di fronde fuori dalla tetra facciata, con gli occhi semichiusi e fissi sulla fessura che si apriva verso l’interno.Non dispongo di alcuna prova tangibile che possa confutare tali asserzioni, giacché la chiave che dissuggellava il lucchetto s’è persa durante la colluttazione in quella notte degli orrori. Le strane cose del passato che ho appreso durante i convegni notturni con i morti, mio padre le respinge ritenendole il frutto delle mie assidue e indiscrimiflate letture degli antichi volumi della biblioteca di famiglia. Se non fosse stato per il mio vecchio servitore Hiram, mi sarei ormai quasi del tutto convinto della mia pazzia.Ma Hiram, fedele fino all’ultimo, ha voluto credermi, e ha fatto una cosa che mi costringe a rendere pubblica almeno una parte della mia storia.Una settimana fa, ha spezzato il lucchetto che assicurava la porta alle catene tenendo la tomba eternamente socchiusa, ed e disceso con una lanterna nelle umide profondità. Sopra una lastra, posta in una nicchia, ha trovato una vecchia bara vuota la cui targa annerita reca una sola parola Jervas.In quella bara e in quel sepolcro mi hanno promesso che un giorno troverò riposo.

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domenica 6 ottobre 2013, ore 17:59
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