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Della oltremodo leggiadra espressione: “Tò mà Ballerina di Francia” - Storia semiseria
(61 voti)
Scritto da Laura De Angelis   
Giovedì 24 Agosto 2017 00:00
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Si Trova in alcuni manoscritti di epoca antica, bastevolmente chini di pruvulazzo da essere giudicati autorevoli dagli studiosi, l’espressione “Tò mà ballerina di Francia”, epiteto documentato con magna copia anche nell’idioma volgare geliota. E si trova anche nel blackjack online. In una di queste suddette fonti, ora perduta, (cronache locali riportano che l’8 dicembre dell’anno 1912 il fuochista Sasà detto “belli naschi”, adoprava i preziosi cartigli per addrumare i botti dell’Immacolata essendo gli stuppini delle micce assappanati per la pioggia) si recita:

“Tale rizzo di lingua ha remota origine nel secolo Decimo Settimo quando si acclaro' con efficace sintesi la reazione popolana alla moda d'oltralpe".

Si manifestò cioè la sorniona ironia sui cannoli delle parrucche dei signuri che si impupavano facinnusi la facci bianca, la vucca russa e nica come il culo di una jaddrina ovaiola, e si allicchittavano cu pizzi e nocchi ad imitazione dei colleghi francisi.

Che la nobiltà accussì allicchittata mostrasse la sua natura asinina e indubbiamente ricchiuna era, per una misteriosa ragione, opinione ormai fatta tra i viddrani i quali osservavano il passìo dei signori che la Domenica cercavano rifrisco e svago in campagna arricampandosi con carrozze guarnite e pittate come cassatine.

Considerando che al tempo per il masculo autoctono il colore più civettuolo era il nero e che ogni contatto con l’acqua era ritenuto prova di tendenze sospette, le due parti vivevano quelle visite domenicali in maniera assai diversa.

I nobili si apparavano come per un safari nella savana e si affacciavano tutti eccitati dai finistrini delle carrozze per taliare quegli omini nivuri e caddrusi. Gli indigeni, invece, taliavano quell’esodo di figuri streusi con laconica diffidenza e la stessa disposizione d’animo riservata all’arrivo di un intero circo equestre, non essendo molto chiara la sottile sfumatura fra l’aspetto di un nobiluomo settecentesco e quello di una coeva buttana pittata.

Segue la nostra fonte: “Ma è soprattutto nella parlata popolare che questa felice espressone di stima per il mestiere più antico del mondo, indissolubilmente legato per vie misteriose anche ad altri tipi di arte, ha avuto fortuna”.

E’ ormai cosa nota che voci sulle doti delle donne di spettacolo d’oltralpe si erano diffuse in tutta Italia già in epoca napoleonica ed erano calate piano piano fino alla Trinacrìa lagnusa ed affarata guadagnando, mano a mano che scinnivano per lo stivale, indubitabile certezza scientifica.

Ma fu solamente quando da un paiseddru spersu nel cuore pietroso della Sicilia un certo Cecé, detto “U baggianu”, partì cu truscie e belici per Parigi, che si ebbero notizie più precise del caso. Dapprima dalla Franza arrivarono buste talmente piene di ricci che il varbere della piazza, unico ad avere coccio di littra, dopo avere cummattuto per capirici qualichi cosa, ci aveva perso speranza e stujandosi il sudore dalla facci aveva tolto mano all’opira.

Poi un giorno, nella piazza assolata e deserta, era arrivata con grande scruscio una macchina lucente e bianca e ne era scinnuto un ometto tutto impomatato con i muzzazzi all’insù e la scriminatura del mezzo ca passava dritta per la crapa come una trazzera di campagna. I vestiti di lino inamidato parivano accussiì tisi che a memoria di paesano si ricordava solo la camiseddra di mussola del contessino Colajanni per il vattesimo.

Totò pira e puma , ribattezzato così per l’attività ortofrutticola abusiva che conduceva serenamente in piazza da tempo immemore, e Tonino detto “vavaluci” (quest’ultimo così chiamato non tanto perché vendeva vavaluci nella carriola, quanto per la maniera in cui parranno la saliva gli si quagliava ai lati della bocca) erano rimasti talmente mammaluccuti e a vucca aperta ca un dentista avrebbe potuto fargli facilmente una visita ortodontica ed estrargli un dente del giudizio senza anestesia.

La notizia del ritorno del "nuovo" Cecè, era così esplosa come una bumma il cui eco si propagava di bocca in bocca. In breve era diventato il personaggio più richiesto ed ambito in città. I nobili l’avevano subito voluto al loro circolo, per portare quel tocco esotico e forestiero che ad un ambiente aristocratico non poteva mancare. I poviri lo acclamavano a gran voce perché li faciva sognare con storie di posti lontani e meravigliosi che loro non avrebbero visto mai. Cecé ribattezzato “u francisi” era personaggio immancabile a matrimoni, battesimi, comunioni, ed ogni tipo di feste, escluso, si intende, quelle religiose dove il parrino lo taliava invece con occhi fuschi per i suoi racconti scostumati.

Bastava una voce a chiedere “Cecé raccontaci della Franza!” e, come richiamato da un invisibile “là”, “U francisi” incominciava il suo concerto. Un assolo di violino che cresceva e si inerpicava in nuove svisature e poi culminava in una apoteosi di fanfare e trumme.

La fortuna di Cecè fini un giorno assolato quando il treno lasciò alla stazione una donna forastiera, con una sciallina di pili nivuri sul labbro superiori ed una panza di dimensioni inequivocabili. Il bigliettaio che aveva cummattuto tutto il viaggio da Palermo pì riuscire a farici capire chi aviva a fargli vedere il biglietto, era sceso con la fimmina e, più per scarricarsi quella camurria appiccicusa che per galanteria, l’aveva accompagnata in piazza mentre quella gli vociava nelle aricchie “ Dominic le curt, Dominic le curt!”. Così i due, lui davanti con le belici e quella darreri vuciannu e tenendosi la panza , erano arrivati dalla salita fino a destinazione. Una volta al centro della piazza la fimmina si era taliata intorno come avesse una allucinazione per il cavudo, poi virenno la putìa del varbere con l’insegna colorata bianca rossa e blu ca pariva un bastoncino di zucchero, si era illuminata e aveva spalancato un sorriso dietro la tendina di pili. Allora, con una mimica esagerata e comica, aveva accomminzato a fare insinga al bigliettaio arrotolando immaginariamente due enormi mustazzi al’insù e cercando nell’òmo un barlume di comprendonio. Quello, ormai esausto e na’ nticchia rincoglionito dalla fame e dal profumo di maccaruna o’ sucu che già viriva fumanti sulla tavola, taliando la fimmina ed il corredo di baffi di cui la natura l’aveva dotata, aviva pinzato che volesse farsi una bella rasata e con grande plauso l’aviva accompagnata dal varveri. Iddra lo aveva seguito arrirenno felici, pensando di essersi finalmente fatta capire con la sua òpira. Ma quanno si era truvata assittata con il bavagghio bianco davanti al varveri che montava la spuma di sapuni e ripeteva ca due mustazzi accussì non l’aviva visti mancu ad un masculu, realizzò l’equivoco e si arrivotò come una jatta sirbaggia, dimenandosi e assistimando tumbuluni all’urbina.

Dopo una colluttazione corredata di bestemmie in siciliano e lingua franca, il bigliettaio ed il varveri erano fuggiti dalla putìa con una serie di sgranci in faccia a modi indiani sioux ed avevano cercato riparo dal vicino salumiere, tale Saruzzu Marcia Reale, così detto per la fama dei suoi panini imbottiti ripieni di ogni ben di Dio e accussì sucusi ca erano cosa di suonarci la Marcia di sua Maestà. Saruzzu, nel vidire i due trasire come due diavuli satanassi, sgranciati e con gli occhi di fora, per lo sbarattamento a momenti nel panino ci mise a condimento macari un dito. Poi, riprendendo animo, cacciò fori tutti, chiuse gli scuroni della bottega come faceva nelle situazioni di estrema gravità e con fare confabulatorio sibilò ai due: “Arrivò il segnale?”

Saruzzu era notoriamente un nostalgico del Regno di Sicilia ed il pinzero di stare adesso sotto ai Piemontisi gli calava chiù pisanti della sua famosa guastella con sgombro e salame. Sfidando le ire dei sostenitori della nuova Italia unita, aveva pisciato pubblicamente sul tricolore e ci aveva guadagnato una sonora carpata di vastunate e un misata di galera. Convinto di un improbabile riflusso della storia, viveva fuori dal tempo aspettando il fatidico segnale che chiamasse i sudditi fedelissimi dalla rivolta. Quindi, nel vedere i due compari accussì cuminati, si era fatto convinto che l’agognata ora fosse finalmente giunta. Chiarito il malinteso e discussa la faccenna della forastiera, si convenne che era necessario ricorrere ad un interprete. E siccome non avevano ben capito che lingua parlasse la fimmina, chiamarono l’unico che in paese sapesse parlare un’altra lingua straniera, oltre all’italiano.

Appena Cecé vitti la donna addivintò di tutti i tre i culuri della vandiera su cui Saruzzu il salumiere aveva pisciato. Prima si fici virdi come una mela cotogna, poi sbiancò talmente da pariri un fantasma ed in fine arrussicò come un pummaroro maturo. Tutto in sequenza speculare alle tre cose che fece la fimmina nel riconoscerlo: trovato finalmente il suo trofeo, gli sfoderò il suo smagliante sorriso, poi , mani ad anfora sui fianchi, gli si parò davanti in tutta la sua stazza e mostrò orgogliosamente la panza, infine, cogliendo il pronto tentativo di fuga del malcapitato, jittò un urlo accussì tremendo da impietrire l’omo come una statua di sale.

Tutti in paese convennero che la nuova arrivata non sembrava molto francisi.
Innanzitutto perché non aveva la gonna isata e non scavuciava la gamba in alto come i muli come aveva raccontato Cecé, secondo poi perché non profumava di cologna, e terzo pirchì aveva dei mustazzi che, pur portati alla moda d’oltralpe, non ricordavano affatto una femme fatal, ma di “fatal” avevano solo l’effetto. A guardarla bene, questa francisi ricordava più una fimmina sicula, prima di tutto per la stazza, e poi per il carattere infirnuso e la propensione a vuciare che l’avevano portata, pur parlando un’altra lingua, a sciarriarsi nel giro di due giorni con tutto il curtugghio.

Il sedici di Luglio 1897, per la Madonna del Carmelo, tra bambini chiangenti e una folla di astanti che si sbintuliavano, Cecé convolò a nozze nella Chiesa Madre, riparando alle sue presunte responsabilità.

Durante la celebrazione, il povirazzo aviva na faci accussì inguttuta e vianca ca faciva concorrenza alla statua della madonna addolorata nella cappellina a fianco. Per una strana legge del contrappasso, invece, la francisi esibiva sulla faccia tunna e russa un sorriso trionfante, si vutava guardando intorno come una picciriddra stranita da quella inspiegabile notorietà e affuscava le sopracciglia solamente per tentare di capire l'omelia che Don Iapichino, parato con la livrea delle feste solenni, recitò con espressione rapita.

Nacque un bel masculiddru, con una faccia rotunna e russa ed una forza tali e quali a quella della madre, ma la cui eredità genetica paterna era, tuttavia, difficile da cogliere.

Cecé però non ci faciva caso, se ne andava in giro con in picciriddro, e lo mostrava a tutti cu na facci imbriaca dalla felicità; pariva sciogliersi ad ogni suo gesto o moina e con occhi persi trovava nel picciriddro somiglianze e corrispondenze quanto meno dubbie agli occhi degli altri. Siccome però è cosa assodata che la felicità consiste, prima di tutto, nel disìo di essere felici, taliando Cecé tutti avevano bonariamente finto di credere. O forse, dimenticando l'evidenza, alla fine avevano veramente creduto che picciriddro fosse suo figlio.

In breve nessuno aveva più pensato alle ballerine di Franza, definitivamente classificate come creature leggendarie nate da qualche bicchiere di champagne di troppo e dalle mastodontiche minchiate inventate da Cecé.

Fino ad una mattina in cui alle putìa del barbiere arrivò una lettera imprufumacchiata. Sulla carta pergamena con grafia femminile, l'inchiostro nero tracciava il nome di Dominique, Cecé Le Curt .

Cecé arrivò di cursa alla notizia della lettera.

Mentre scartava la busta rosa cipria con il trimulizzo nelle mani e la fronte tutta sudata, il varberi e u caruso di bottega erano rimasti alluccuti come pupi di marzapane pisciandosi addosso dalla curiosità, uno con il pennello in mano e l'altro con la tovaglia calda di vapore, dimenticandosi completamente di Serafino Impastato che era rimasto sulla poltrona con la barba menza fatta e menza no e santiava come un turco.

Da un foglietto di carta velina rosa sgusciò fuori la foto di una fimmina in posa, graziosamente appujata ad una colonnina, con un cappello di piume e la vistina isata da un lato che lasciava intravedere una coscia e un piruzzo nico nico stretto in uno stivaletto nivuro. Cecé addivento di cira, mentre agli altri con gli occhi sgriddratti nel vedere quella coscia chi sbucava dai pizzi, ci pigliò un basco accussì forte che per poco il barbiere, nell' appujarsi, non fici pilo e contro pilo al cannarozzo di Serafino Impastato che a quel punto era scattato in piedi e li voleva ammazzare tutti.

Due grosse lacrime silenziose e sognanti scesero allora dagli occhi tunni e azzurri di Cecé, che aveva stipato ormai in un angolo sconosciuto della mente ricordi accusì belli da essere insopportabili.

Sordo alle domande e alle tirate di cammisa era rimasto affatato, perso in una visione lontana.

Mon coeur, da mesi non ho più' tue notizie, non vivo più' senza te. Ti ho cercato dappertutto, ed alla fine ho mandato Eveline, la figlia del mugnaio che sta a servizio da me, a cercarti al tuo paese natale sperando, mio respiro, che ti possa trovare. Non parla una parola di italiano, ed e' incinta di un ragazzo del paese, per questo ho pensato di allontanarla dalle ire di suo padre con questo compito.

A presto mon amour,

Adieu

Lisette

Cecé non parlò mai più della Francia. Se ne andava per le strade con uno strano sorriso docile e rassegnato con il picciriddro per mano, che scapuzzuliava con i piruzzi incerti sulle pietre delle trazzere. Ma tutti, vedendolo passare, tistiavano e lo trattavano con il rispetto riservato a quei marinai che hanno visto durante una tempesta una di quelle creature marine mostruose ritenute da tutti, fino a quel momento, leggendaria.

L'amarezza dei compaesani verso la strana economia della sorte, trasformò però in una ingiuria il nome di un desiderio divenuto chimera. ”Ballerina di Francia” divenne allora sinonimo di “buttana”, così come il nome di una donna amata e persa diventa, vanniato, la propria condanna.

Scheda dell'autore

Laura De Angelis è nata a Gela e vive a Ravenna. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali all'Università di Bologna, consegue il dottorato di ricerca in Esegesi delle fonti medievali e insegna Lettere negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado. Nei suoi racconti, che spesso si tingono di onirico, la "siculianità" si fonde con l'amore struggente per una terra contraddittoria che regala scorci e ritratti in bilico tra ironico disincanto e rarefatta poesia.
 

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