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C’era una volta... "u pani i casa"
(il pane casareccio)
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Saccaromiceti, colture e prodotto. |
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Il pane casareccio siciliano è preparato esclusivamente con semola rimacinata di grano duro. Prima di procedere all’impasto la semola viene setacciata nel cosiddetto crivu (setaccio). Un tempo venivano utilizzati differenti setacci per separare le diverse frazioni della molitura: la farina integrale, ottenuta dalla macina, veniva fatta passare attraverso setacci a maglie sempre più fitte per separare canigghia (crusca), ranza (cruschello) e semola.
Il tipo di lievitazione impiegata è quella con lievito naturale, il criscenti (così chiamato prevalentemente nella Sicilia occidentale) o criscenti. Il lievito di casa è solitamente conservato in una ciotola di terracotta che in estate viene ricoperta con un panno per evitare l’indurimento.
Poco comune, ma non del tutto scomparso nel nostro territorio , è l’impiego di criscenti maturi, stabilizzati, mantenuti da continui “rinfreschi” e ottenuti, in origine, attraverso pratiche tradizionali (utilizzo di latte acido, mosto, frutta matura, ecc.); più comune risulta essere, oggi, l’utilizzo del” criscenti”, preparato generalmente il giorno prima, prelevando una porzione di impasto destinato alla panificazione (spesso contenente già una frazione di lievito di birra) e lasciato inacidire naturalmente. |
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In alcune aree, per la preparazione dell’impasto, il lievito naturale viene stemperato con acqua tiepida, in altre viene aggiunto tal quale, alla semola e all’acqua. L’acqua può essere aggiunta a piccole quantità (nella maggior parte dei casi) oppure in un’unica soluzione.
In origine l’impasto era amalgamato manualmente nella maidda, un recipiente di legno con i bordi bassi che conteneva gli ingredienti. L’impasto veniva portato poi dalla maidda alla sbriga o briula, una tavola a forma di figura femminile, alla cui testa, tra due tavolette parallele è disposta l’estremità di una stanga robusta, detto sbriuni o sbriguni. Chi era sprovvisto della sbriga utilizzava un’altra tecnica “a pugnatura”, conficcando energicamente i pugni chiusi nell’impasto (caddiari). |
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Una vecchia "maidda" |
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Giuggiulena |
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Panini ai semi di papavero |
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Quando la pasta era stata raffinata si portava all’impanaturi e qui si tagliava a pezzi per ricavarne le forme volute.
Le forme, ottenute per spezzatura manuale, possono essere rotonde (vastedda), ad anello (cucciddati) o allungate (filuna); spesso sulla faccia dorsale dei pani sono aggiunti semi si sesamo (giuggiulena) o di papavero (paparina). La lievitazione procede per periodi di tempo che variano, in funzione dell’area considerata e della stagione, compresi tra 1 ora e mezza e 4 ore circa, sistemando le forme su teli di cotone, adagiati su ripiani di legno. In inverno, in particolare nelle Madonie, nei Nebrodi ed in altre aree montane, vengono impiegate coperte di lana per facilitare la lievitazione. Per verificare quando l’impasto è pronto per essere infornato si tubìa, cioè si batte con le mani: la tonalità, più o meno cupa, indica il momento ottimale. |
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La cottura avviene in forni a legna a fuoco diretto, alimentati prevalentemente con ulivo, ilice e quercia; quando la volta del forno si colora di bianco - “furnu camiatu”- si scopa il piano di cottura e si procede all’infornata. La brace raccolta all’imboccatura del forno spesso viene addossata al coperchio di ferro, per evitare perdite di calore. Spesso, alla fine della cottura, alcuni panificatori aprono la bocca del forno e voltano i pani per far si che non sia la sola faccia inferiore a cuocere; in alcuni casi, a metà cottura, il panificatore ha cura di effettuare un’operazione di rotazione dei pani all’interno del forno (svotata o girata do’ furnu), cambiando di posto i pezzi introdotti per primi con quelli infornati per ultimi: tale operazione permette una cottura omogenea dei pani introdotti. È in uso in molte aree della Sicilia attaccare alla bocca del forno a legna un piccolo pezzo di impasto per controllare il tempo di cottura: infatti, quando il cosiddetto “muccùni i pani” (pezzettino di pane) si stacca si considera completa la cottura del pane.
Per la cottura del pane, in molti paesi, erano un tempo adoperati i cosiddetti “forni di quartiere”; quando questi erano pronti per l’infornata il proprietario suonava una trombetta dal suono caratteristico, avvertendo così le massaie, che abitavano nelle vicinanze, che il forno era caldo e che si poteva infornare. Era uso anche obbligare le massaie a punzonare con un segno il proprio pane in modo tale che alla sfornata potesse essere facilmente riconosciuto. Queste tradizioni, oggi in fase di regressione in tutto il territorio regionale siciliano, conferivano all’ambiente forti riferimenti culturali e sociali; in particolare il profumo del pane appena sfornato, frammisto all’aroma della legna bruciata, caratterizzava l’atmosfera che appariva, pertanto, particolarmente ricca di sacralità. |
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Caratteristici forni a pietra
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Esistono in Sicilia due grandi tipologie di pane casareccio, contraddistinte entrambe da precise metodiche di produzione e caratteristici profili sensoriali. La distinzione fondamentale è essenzialmente riconducibile al quantitativo di acqua utilizzata per ottenere l’impasto e, probabilmente (ma questo richiederebbe mirate ed adeguate indagini per una verifica), anche alla varietà di grano duro impiegata. È possibile individuare un pane casareccio siciliano a pasta dura, prodotto mediante un impasto che contiene un tenore di acqua inferiore al 50 %, ed un pane casareccio propriamente detto (o, per essere più precisi, con tale nome identificato) caratterizzato da un impasto più morbido, con tenore di acqua generalmente superiore al 50-60 %. Le caratteristiche sensoriali, l’aspetto e i nomi di quest’ultima tipologia di pane casareccio, spesso, variano da zona in zona contribuendo ad arricchire le produzioni tipiche siciliane. Per ogni pane casareccio prodotto restano, comunque, quali elementi comuni, l’utilizzo di grano duro locale, di forni a legna a fuoco diretto e di lievito naturale.
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